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I cent'anni del Paròn

post tratto dal mio blog Polis, Policy, Politics su Il Futurista

Il 20 maggio avrebbe compiuto cent’anni l’uomo al centro della più importante mitopoiesi triestina del Novecento: Nereo Rocco, el Paròn. Calciatore simbolo della gloriosa Triestina degli anni Trenta, quella immortalata dai versi di Umberto Saba in Tre Momenti e Squadra paesana, raggiunse l’apice nella veste di allenatore dalla fine degli anni Quaranta alla fine dei Settanta, quando si spense a 67 anni.

Tozzo, burbero all’apparenza e privo di diplomazia, in realtà un uomo umile, semplice e di grande umanità. Nulla a che vedere con i demiurghi che imperversavano all’epoca - il mago Herrera - e che si arrogheranno il proscenio fino ai giorni nostri, come l’Arrighe da Fusignano o lo Special One da Setubal. Nereo Rocco, divenuto el Paròn in un epoca in cui Mister in Italia suonava ancora male, aveva genio applicato al calcio: in un’Italia legata al modulo chiamato Sistema, di cui era stato eccellente interprete il Grande Torino, introdusse un’eresia tattica d’invenzione elvetica, tale Catenaccio, destinata a fare le fortune di squadre provinciali come la Triestina e il Padova e far storcere il naso ai critici del pallone. Muro difensivo e via veloci in contropiede.


Lo volle il Milan di Rizzoli e le vittorie non conobbero confini: prima l’Italia, poi l’Europa, infine il mondo dovettero piegarsi davanti alla linea Maginot eretta dal caparbio Paròn. Gianni Brera, giornalista e scrittore tra i più brillanti del Novecento italiano, lo adorava. Stessa visione del calcio, medesima filosofia di vita: le confidenze e le interviste si mescevano in osteria, tra partite a carte, cucina casereccia e fiumi di buon vino.


Raccontato in biografie godibili e puntuali, come quelle di Gigi Garanzini e Giuliano Sadar, in cui la ricca aneddotica descrive un Paròn autoironico senza scivolare in inflessioni troppo celebrative. “A Milano sono il cavalier Rocco, a Trieste quel mona del bechèr”, diceva rimproverando alla sua città natale di amarlo ma di non prenderlo abbastanza sul serio. Ma fu egli stesso, in una connaturata professione di modestia, a esprimere una Trieste umile e lavoratrice in quel continuo, ostinato ricorso al dialetto come forma espressiva, ideale per traghettare la saggezza del popolo e per graffiare di battute, alcune davvero da antologia, un mondo ingessato e perbenista.

Oggi però, dopo avergli intitolato uno stadio tra i più belli d'Italia, il capoluogo giuliano ricorda il centenario dalla sua nascita attraverso una mostra ricca di installazioni, contenuti multimediali e cimeli, allestita presso il Magazzino 26 e aperta fino al 31 luglio prossimo: giusto riconoscimento per un personaggio sicuramente più celebre extra moenia delle due anime della Trieste postbellica, il vescovo Santin e il sindaco Bartoli (peraltro rovignesi di nascita) e più popolare di Strehler.

Il Paròn grondava una triestinità ridondante e immediatamente identificabile, riscontrabile - in parte - negli anni ’60 in Lelio Luttazzi e successivamente approssimata in modo più timido da Claudio Magris: in un ideale Pantheon giuliano del XX secolo Nereo Rocco accede non tanto per i trionfi sportivi, la popolarità internazionale e i valori che seppe trasferire, ma perché ritrasse il volto di una Trieste umile, lontana dagli stereotipi mitteleuropei e dai miti asburgici, che - pur segnata dalle crudeltà del secondo conflitto mondiale - si rimetteva in piedi con dignità e tornava ad eccellere.

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