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Il tramonto di B? - Da "Che fai mi cacci?!" alla débacle amministrativa

I risultati della tornata ammnistrativa, maturati nel corso di questi quindici giorni, hanno implacabilmente sancito la disfatta dell'attuale maggioranza di governo. Un risultato netto, indiscutibile e forse inaspettato nelle proporzioni che corrisponde non a un campanello d'allarme ma più probabilmente a una campana che suona a morto.

Le vittorie, nell'italico cliché, di solito hanno molti padri, mentre le sconfitte sono destinate a rimanere orfane. Il centrodestra targato Berlusconi in tal senso ha prodotto un'innovazione autentica, forse l'unica del suo decennio, in cui il leader e padrone è il trionfatore unico, al contrario le colpe di ogni insuccesso sono sempre altrui (dei magistrati, degli alleati traditori, delle congiunture internazionali, dell'informazione controllata dagli avversari).



Ovviamente questa lettura è totalmente inverosimile e oggi più che mai. Il risultato uscito dalle urne di sei importanti capoluoghi di provincia (Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trieste e Cagliari) sono il risultato della degenerazione del berlusconismo:  una corsa di giorno in giorno più folle e solitaria.

Dal predellino in poi il tycoon brianzolo era tornato sulla breccia grazie agli errori e all'inadeguatezza di qualsiasi proposta politica alternativa: a sinistra le alleanze composite incollate da Romano Prodi avevano dimostrato sia nel '96 che dieci anni più tardi di avere ventiquattro mesi di autonomia prima di implodere. Con le opposizioni ridotte al metabolismo basale, il nostro ha ritrovato larghissimo consenso nel Paese e una maggioranza parlamentare senza eguali. Dodici mesi fa questo strapotere si confermava con la conquista del governo regionale di Lazio, Piemonte e Campania, ulteriore sganassone rifilato a un Partito Democratico in crisi di leadership e attraversato da una polemica interna tra la vecchia classe dirigente e i giovani "rottamatori".


Un quadro sostanzialmente ideale per affrontare una stagione di riforme necessarie e più volte annunciate all'interno delle campagne elettorali. Non è stato così, nessuno degli mpegni più essenziali veniva affrontato o quasi. Il PDL modello Arcore si rivelava un mastodontico monolite privo di democrazia interna e insofferente alle critiche: le chiusure sui temi etici, in ossequio al cattolicesimo più reazionario, la disinvoltura nei rapporti tra politica, affari e malavita, le scelte di politica estera del premier facevano riaffiorare una mal sopportata anima liberale e/o legalitaria riunitasi attorno alle esternazioni di Fini.

Tra i due cofondatori volavano così gli stracci: nel dito puntato dal presidente della camera scorgiamo oggi la crepa di un sistema accentratore incapace di riflettere su sé stesso, sui propri errori e limiti. Se Fini, incolpato di "stillicidio di distinguo", veniva facilmente liquidato dal PDL, non altrettanto poteva dirsi degli scandali che colpivano il ministro Scajola, il coordinatore nazionale Verdini e il coordinatore campano Caldoro lasciando sgomenta l'opinione pubblica, stufa della corruzione e dei privilegi della casta.

Da lì in poi la follia di Berlusconi non conoscerà più ostacoli. Attraverso le testate di proprietà della sua famiglia o a lui vicine avallerà un linciaggio mediatico nei confronti di tutti i dissidenti; grazie al fido Alfano riaprirà il fronte di guerra contro la magistratura; supererà il voto di sfiducia del 14 dicembre con il mercimonio dei parlamentari.

L'estrema difesa del leader non viene affidata all'azione di governo nemmeno questa volta, ma alla violenza verbale e alla sguiatezza di La Russa, Santanché, Sallusti, Sgarbi e alla viscidità di Bondi, Ghedini, Cicchitto, un drappello disposto a difendere l'indifendibile e a denunciare complotti e macchinazioni. Boffo, i finiani, Mercegaglia, Montezemolo, Napolitano: ogni critico è un nemico da delegittimare e abbattere. L'affaire Ruby sarà l'ultimo affondo.

Mentre la disoccupazione in Italia colpisce un giovane su tre e mentre la crescita zero non lascia intravvedere spiragli per un futuro più roseo, scoprivamo che il ricchissimo Berlusconi, attraverso una serie di ruffiani d'altri tempi, manteneva un discreto numero di soubrettine (assolutamente prive di qualsivoglia talento artistico) e semplici escort che si prostituivano con lui. Una delle ruffiane era stata tra l'altro premiata con un seggio al consiglio regionale della Lombardia, alla faccia della meritocrazia tanto sbandierata. Per difendersi da un nuovo processo, Berlusconi prima inventava fidanzate immaginarie, poi affermava di aver creduto che una prostituta minorenne fosse la nipote di un capo di Stato straniero, imponendo al Parlamento - attraverso il voto sull'attribuzione delle competenze - di ratificare questa versione.

Dopo aver varato il legittimo impedimento e tentato una riforma della giustizia ad personam, dopo aver osservato coi sudori freddi la situazione libica ed aver "risolto" i problemi di Lampedusa con uno show che passerà alla storia, Berlusconi si lanciava in una campagna elettorale amministrativa alla ricerca della spinta plebiscitaria che gli consentisse di giustificare qualsiasi nuova forzatura nei confronti delle istituzioni e della democrazia.
In un Paese che necessita di politica, il premier si lanciava esclusivamente nella propaganda: capolista a Milano, esplicitamente identificava il voto amministrativo con un nuovo, eterno referendum pro o contro la sua leadership.

Il voto del primo turno lo travolgeva impietosamente, costringendolo a fare retromarcia sulla valenza politica di questa tornata elettorale. Le due settimane precedenti il ballottaggio delineavano la deriva parossistica della sua vulgata e della sua azione: la ricerca di un consenso basandosi sulle paure, sulla demonizzazione costante e sistematica degli avversari. Un cocktail di messaggi reazionari, populisti e offensivi.

Comunisti al potere, zingari accampati ovunque, moschee ad ogni angolo, culattoni e feminielli a deviare i nostri giovani erano i timori da sollevare nella popolazione. Ministeri da spostare e multe da cancellare dovevano solleticare Milano, tasse da non pagare dovevano eccitare il napoletano medio, aiuti a una disastrata squadra di calcio rincuorare il tifoso triestino.

Il tutto confezionato, come un leader sudamenricano non avrebbe saputo fare meglio, irrompendo nei telegiornali allineati. E come ciliegina sulla torta, alla vigilia del voto, la figuraccia drammatica al G8 davanti a un allibito Obama che strabuzza gli occhi davanti al concetto "quasi una dittatura dei giudici di sinistra".

Non può stupire in definitiva il risultato ottenuto: Berlusconi ha raccolto insomma quello che ha seminato costruendo un partito che è un comitato d'affari, selezionando una classe dirigente in base alla fedeltà, sottomettendo l'azione di governo ai propri interessi personali, delegittimando le istituzioni e comunicando un'idea di Paese diviso tra fazioni che si odiano. Con questi presupposti la perdita di consenso è stata fin troppo contenuta.

Anzi, resta ora da chiedersi come un uomo, che fornisce ampie dimostrazioni di instabilità e di scarso intelletto, possa governare un Paese ed essere ancora largamente considerato l'unico punto di riferimento possibile del voto moderato e liberaldemocratico.

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